"Forse"

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lunedì 20 settembre 2010

Ibernazione Umana

Il 12 gennaio 1967 a Los Angeles, California, il primo "paziente" veniva trattato con speciali agenti protettivi e congelato immediatamente dopo la morte, nella speranza che future tecnologie ne permettessero il ritorno in vita ed il ringiovanimento.  Tale procedura è la crionica (a volte chiamata ibernazione, ibernazione umana, criopreservazione, biostasi o sospensione crionica). Essa mette in discussione il concetto tradizionale di morte e i limiti "naturali" della vita. Più specificamente,  la morte è la perdita irreversibile dell'informazione contenuta nel cervello (cioè le nostre memorie e la nostra personalità). Una volta deteriorata la struttura del cervello, l'informazione in essa contenuta è irrimediabilmente persa e con essa ogni traccia della persona definita da tale informazione. Ma se la struttura del cervello fosse mantenuta intatta dopo la morte? Se si potesse prevenire la perdita delle strutture neuronali in cui la nostra personalità e i nostri ricordi sono codificati?  In effetti, tutto ciò è già possibile con la tecnologia odierna, anche se non in maniera perfetta. Alcune centinaia di persone, organizzate in varie organizzazioni, intendono farsi congelare (una volta morti),  nel tentativo di prevenire la perdita irreversibile dell'informazione iscritta nel proprio cervello. Il problema è che, se da una parte è possibile preservare le strutture del cervello con tecniche attuali, non è invece ancora possibile rianimare una persona congelata. Se il progresso scientifico continuerà nella sua marcia, un giorno tale rianimazione potrebbe essere una realtà, così come oggi sono una realtà procedure quali il trapianto di organi e le terapie geniche, che generazioni precedenti avrebbero considerato miracoli (o fantascienza). Ralph Merkle, nel suo articolo "La riparazione a livello molecolare del cervello", così descrive il concetto di morte secondo la teoria dell'informazione: "una  persona è morta, secondo il criterio della teoria dell'informazione, se le sue memorie, personalità, speranze, sogni, etc. sono state distrutte. Questo significa che se le strutture del cervello che codificano la memoria e la personalità sono state danneggiate al punto che non sia possibile riportarle al corretto stato funzionale, allora la persona è morta. Se le strutture che codificano la memoria e la personalità sono invece sufficientemente intatte ed è possibile fare delle deduzioni sulla memoria e sulla personalità in esse codificate, allora il recupero di un appropriato stato funzionale è possibile, almeno in principio e la persona in questione non è morta. " Solo partendo da questi presupposti si può intravedere la logica nascosta dietro un atto, come appunto quello di congelare una persona recentemente deceduta, che sarebbe altrimenti privo di qualsiasi fondamento.

Testimonianza di un Italiano:
L’avvocato Vitto Claut è nato a Montereale Valcellina, vive a Pordenone, ha due studi legali, uno in città e uno a Udine, è single, senza figli («Ma è come se ne avessi cinquanta sparsi per l’Italia, metà carriera l’ho passata facendo adozioni internazionali»), ha 57 anni e vorrebbe viverne almeno altri trecento: «Ma basterebbe anche un giorno in più di quanto ha stabilito il destino». Desiderio legittimo e comune a ogni mortale. Vitto Claut, però - sarà per deformazione professionale - i desideri tende a trasformarli in fatti concreti. È per questo che ha firmato un contratto con l’Alcor Life Extension Foundation di Scottsdale, Arizona - il più importante centro di criogenesi del mondo - per essere ibernato dopo la morte.
È il primo italiano a farlo, e l’unico finora. Ed è talmente entusiasta, che è già proiettato nella fase successiva del progetto: creare anche in Italia un istituto per l’«estensione della vita», tre parole magiche che riecheggiano in decine di romanzi, film e fumetti: «Mi piacerebbe trovare un imprenditore che lavori con me per creare un centro come quello americano. Perché? Per dare una speranza in più alle persone». Speranza: la parola chiave. «Tutto è iniziato circa sette  anni fa, quando venni a sapere dell’esistenza negli Stati Uniti di un istituto dove i corpi delle persone vengono portati a temperature che arrestano il decadimento fisico fino a che la scienza riuscirà a riportarli in vita. Una speranza in più per l’umanità, insomma. “Devo andare là e capire come funziona”, mi dico».
E così, nell’estate del 2003 l’avvocato Vitto Claut vola in Arizona e si ferma una settimana alla Alcor per un sopralluogo: «Molto gentili, mi hanno spiegato le procedure, i termini del contratto e fatto visitare il centro: in quel momento si trovavano ibernate sessanta persone, oggi sono più di cento, tra i quali personaggi famosi: lo psicologo James Bedford, il primo uomo a essere criogenizzato, nel ’67, e poi senatori, industriali, il campione di baseball Ted Williams...».
L’avvocato Vitto Claut, non ha mai amato i romanzi o film di fantascienza - «semmai i western» -, ha girato 160 Paesi, dal Cile all’Australia, un po’ per necessità («Facevo la guida turistica per pagarmi gli studi»), un po’ per lavoro («Come avvocato per anni ho accompagnato all’estero le famiglie che adottavano bambini») e soprattutto, da buon avvocato, è un tipo molto scrupoloso: «Mi sono preso un anno per decidere. Ho voluto sapere tutto, studiarmi ogni clausola del contratto, capire le conseguenze giuridiche per quanto riguarda i beni personali in Italia, che andranno ai miei eredi mentre io semplicemente pago una rata annuale perché la Alcor dopo morto mi tenga ibernato nei suoi laboratori fino a quando si troverà il metodo di riportarmi in vita. Quando mi è stato tutto chiaro, sono tornato in America e ho firmato. Naturalmente dopo aver fatto tutte le visite mediche di rito, per via dell’assicurazione».
Assicurazione, esatto. Perché la Alcor non accetta clienti affetti da Aids, o malati terminali o comunque con una prospettiva di vita troppo breve. Perché la Fondazione possa disporre del denaro necessario a mantenersi, occorre che i soci paghino, da vivi, un certo numero di quote. «La Alcor non è una società, ma un’associazione senza scopo di lucro. Se muoio prima, smetto di pagare e godo comunque del servizio di ibernazione. Se invece precipito con l’aereo e il mio corpo è irrecuperabile, allora niente criogenesi e la Fondazione si tiene tutto quello che ho già versato usandolo per la ricerca. Ogni anno si paga una rata di 3600 dollari, fino a un totale di 175mila dollari che è il costo complessivo per il mantenimento del corpo ibernato all’interno del centro. Per la testa soltanto, un po’ meno». Questo è più difficile da immaginare, ma la Alcor, che non per nulla è stata inventata da americani, notoriamente gente pragmatica, oltre al servizio di «criogenesi totale», offre anche la possibilità (a prezzi decisamente più contenuti: 80mila dollari) della «neurosospensione». A essere ibernata cioè è solo la testa, l’unico organo, a pensarci bene, davvero insostituibile, perché quando ci si risveglierà – se
ci si risveglierà - la scienza avrà trovato il modo di innestare il cervello in un nuovo corpo.
A oggi, sono già un centinaio i «pazienti» conservati sotto zero all’interno della Alcor in attesa di risorgere e circa 800 le persone in lista di attesa per essere sottoposte al trattamento al momento della loro morte. Per farlo, però, hanno solo sei ore di tempo. «Il processo di ibernazione deve iniziare subito, nel giro di poche ore. E se io muoio in Italia? Addio criogenesi, ho fatto tutto per nulla. È per questo, capisce, che è importante aprire un centro anche qui da noi. Comunque, se invece mi viene diagnosticata una malattia “controllabile”, quando sono al limite mi trasferisco in Arizona in un ospedale convenzionato con la Fondazione e rimango lì in attesa...». In attesa del trapasso, della certificazione medica di morte avvenuta, poi della sostituzione del sangue con glicerina, del raffreddamento progressivo del corpo, infine dell’incapsulamento, avvolto in un foglio metallico e a testa in giù («Dicono serva a conservare meglio il cervello») in un contenitore blindato che viene portato a 200 gradi sotto zero. «Li ho visti. Sono dei contenitori di acciaio alti cinque metri, sembrano dei barilot, così li chiamiamo in friulano. L’istituto, invece, più che un ospedale sembra un’università: un edificio basso, molto grande, con sale conferenze, laboratori, uffici...».
Vitto Claut, detto per inciso, da anni sovvenziona un istituto per bambini sordo-muti in Congo, a Brazzaville, città fondata nel 1880 da un suo compaesano, Pietro Savorgnan di Brazzà. È per loro che ogni settimana gioca all’Enalotto: spera di vincere la somma necessaria per ingrandire l’ospedale. «Capisce adesso perché mi faccio ibernare? È come fare la schedina. Anche se ho una sola possibilità su un miliardo di essere riportato in vita, io me la gioco. Sono fatto così».
La madre, 85 anni e una fede di ferro, dice semplicemente che è matto, ma lo dice ridendo. «Mamma è cattolicissima, io invece sono... non voglio dire ateo, ma indifferente all’altra vita. Credo solo in questa, che mi piace troppo peraltro. È la ragione per la quale voglio provare a viverne un altro pezzo tra un paio di secoli. Anche solo un giorno, o un mese chissà. Cosa farò se riescono a riportarmi in vita nel futuro? Bella domanda... Tutto quello che non sono riuscito a fare nel passato. E se l’uomo sarà andato su Marte, andrò a farmi un bel viaggio».   

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